JACQUES DERRIDA: VOILÀ LA DIFFÉRANCE
Quasi tutto quello che avreste voluto sapere e non avete mai voluto chiedere (perché c’erano cose più importanti da fare) sul maestro francese del decostruzionismo.
Massimo Morelli

Max Weber
Max Weber ci ha insegnato che la nostra rutilante società capitalistica affonda le sue radici da un lato nella riforma protestante e dall’altro nella rivoluzione industriale (sicuramente la prima, quella del motore a vapore, ma anche le successive visto che a quanto sembra ormai siamo arrivati alla quarta). Da tale unione morganatica è scaturita la cosiddetta ‘società puritano-borghese’ che tutti danno continuamente per morta inventandosi decine di post-ismi (post-industriale, post-moderno, post-umano, eccetera), ma che in realtà continua a rifiutarsi di esalare l’ultimo respiro. Alzi la mano chi può davvero esibire le prove definitive di questo tanto profetizzato decesso.
Morta sicuramente no, ma è innegabile che di colpi anche potenzialmente mortali la società puritano-borghese ne abbia subiti parecchi. Proprio nel momento in cui raggiungeva il suo culmine, intorno alla metà dell’Ottocento, i tre celebri Maestri del Sospetto, ovvero Nietzsche, Marx e Freud, presero a picconarne con violenza le fondamenta: tutte quelle che sembravano conquiste indubitabili della civiltà umana furono improvvisamente declassate al rango di manifestazioni fraudolente o della volontà di potenza, o dell’odio classista o infine di inconfessabili (e inconfessate) pulsioni sessuali rimosse.

Il più sospettoso tra i Maestri del Sospetto: Friedrich Nietzsche
Poteva sembrare un malessere passeggero, ma in realtà era solo l’inizio. Intorno ai primi del Novecento l’opera pionieristica e relativamente solitaria dei Maestri del Sospetto si trasformò in un movimento di furia iconoclasta collettiva trans-nazionale e trans-disciplinare che abbiamo chiamato ‘modernismo’ e dentro al quale, ci piaccia o no, sgambettiamo ancora oggi. Tutto ciò che era stato venerato nell’Ottocento fu ridotto a cenere fumante: in letteratura l’unità di tempo e di luogo del romanzo storico fu soppiantata dalle acrobazie psicologiche dei flussi di coscienza; nelle arti visive alla pretesa di riprodurre il reale succedette quella di rivelarne l’architettura intima nelle sue varie fogge surrealiste, cubiste, eccetera; in musica l’antica gerarchia tonale tra le note fu spazzata via dal turbine democratizzante della dodecafonia; e ancora, da Mallarmé in avanti persino la più tradizionalista delle arti, la poesia, si volle liberare dalle catene della composizione in versi fin quasi a schernirla, a negarle il diritto di esistere. Ma si potrebbe continuare, giacché nessuna forma di espressione umana è stata risparmiata dalla furia devastatrice del Modernismo.
Anche la filosofia, naturalmente, ha preso parte al banchetto cannibalico della modernità, ci mancherebbe, solo che la filosofia si occupa delle ‘cose ultime’ e per arrivare alle cose ultime ci vuole tempo. Un campione del modernismo in filosofia è stato senza dubbio Jacques Derrida (Algeri 1930, Parigi 2004), per molti anni direttore della mitica École des Hautes Études en Sciences Sociales. Senza false pudicizie, con la sua ‘decostruzione’ modernista il buon Derrida ha puntato direttamente ai bersagli più grossi disponibili nell’almanacco delle scienze filosofiche, nientemeno che Essere e Linguaggio. Proprio da quest’ultimo conviene partire. Derrida inizia con l’osservare che l’Occidente ha coltivato una propensione fono-centrica, nel senso che la voce tende a prevalere sul testo scritto (ricordiamoci che quando scriveva queste cose l’immondializzazione socialmediale non si era ancora verificata). Il λογος o Verbo che dir si voglia, inteso come Voce, è al centro di tutto e si fa custode della verità intesa heideggerianamente come ἀλήθεια o non-nascondimento. A parte l’episodio, probabilmente spurio, delle Tavole della Legge, il Dio veterotestamentario si manifesta innanzitutto come Voce, e lo stesso dicasi della rivelazione evangelica di Gesù Cristo sempre impegnato in discorsi, parabole e allegorie.

Il Maestro del decostruzionismo filosofico Jacques Derrida
L’impressione è che gli uomini siano a tal punto coscienti del miracolo evoluzionistico della parola proferita da farne oggetto di venerazione. Il problema è che la parola intesa come voce è quasi sempre caratterizzata dalla presenza del soggetto, e questo limita moltissimo la possibilità di intendere l’architettura intima del discorso, sceverando ciò che è vero da ciò che non lo è. I maestri dell’arte retorica sono sempre innanzitutto degli oratori, giacché i loro discorsi scritti possono essere più facilmente analizzati e contestualizzati, perdendo molto del loro potere persuasivo. Meglio allora, suggerisce Derrida, attenersi al testo scritto che ha preso distanza dal soggetto che l’ha prodotto acquisendo una nuova libertà, quasi una vita autonoma. Proprio per questo sul testo scritto è più facile verificare la ‘différance’, termine coniato da Derrida stesso che si legge come la parola francese différence ma si scrive con una ‘a’ al posto della seconda ‘e’ per evidenziare il significato del termine già attraverso la sua denominazione neologistica. La différance orienta la nostra attenzione sia sullo scarto esistente tra segno e significato, sia sulla distanza che intercorre tra noi stessi come destinatari del messaggio e quello stesso significato che i segni aspirano a evocare. Il testo scritto insomma occulta più che rivelare, o meglio esprime il suo significato soprattutto attraverso lo scarto, l’assenza e il non detto. Su di esso va quindi esercitata la fatidica de-costruzione, una sorta di reverse engineering che consente di percorrere all’inverso il tragitto compiuto dall’autore risalendo dall’espressione testuale ai suoi moventi, peraltro spesso ignoti all’autore medesimo.

La mano divina, particolare dei mosaici di Sant’Apollinare in Classe, Ravenna
Dalla decostruzione del linguaggio discende anche la decostruzione della realtà ultima o, sulla scia di Heidegger, dell’Essere come presenza. Quest’ultimo infatti, anziché essere rivelato dal linguaggio medesimo, è da esso velato, occulto, potremmo dire ‘cifrato’. Sorprendentemente ma non troppo, il Verbo finisce per nascondere anziché ostentare e anche in questo caso il lavoro consiste nel decostruire il testo presunto rivelatore seguendone a ritroso le tracce fino a un’ineffabile sorgente originaria. Compito arduo quant’altri mai, che tende a impaludarsi molto prima del suo vero compimento. Quando bussiamo alla sua porta, l’Essere come presenza risulta assente.
Chissà se Derrida era consapevole di essersi sfacciatamente inserito nel solco dell’antichissimo tema esegetico del Deus Absconditus, che suscitò grande interesse anche presso Giordano Bruno, Marsilio Ficino e il pensiero rinascimentale in genere. “Vere tu es Deus absconditus, Deus Israël, salvator”. Già il profeta Isaia, a quanto sembra, era un decostruttivista ante-litteram.